Il 24 giugno, Venezia ospiterà il matrimonio di Jeff Bezos e Lauren Sánchez. Una notizia scintillante, con 200 ospiti internazionali, un superyacht, catering d’élite e visibilità garantita su media e social network globali. Un evento che – si dice – farà bene alla città.
Ma a chi fa davvero bene?
Al di là dell’impatto simbolico, le ricadute economiche di questi eventi sono circoscritte. Gli hotel coinvolti sono pochissimi e di fascia altissima. I servizi – catering, logistica, sicurezza – arrivano spesso dall’esterno. Anche lo spazio in cui si svolge il cuore della festa, la nave privata di Bezos, è un universo autosufficiente, che non ha bisogno della città, se non come fondale.
La città vera, quella dei lavoratori, degli artigiani, dei piccoli imprenditori locali, resta ai margini, esclusa dai benefici, quasi invisibile. È la logica dell’eccezionalità: tutto concentrato, selezionato, verticale. Tutto perfettamente scollegato dal tessuto quotidiano di Venezia.
Eppure esiste – o meglio, è sempre esistito – un altro modo di essere ospite in questa città.
Un turismo diverso, fatto di gesti lenti, di attenzione, di rispetto.
Un turismo che torna, che si perde nelle calli, che compra un libro, che si ferma a parlare.
Che ascolta un concerto senza fotografarlo, che cerca il senso prima dello sfondo.
Un turismo che consuma lentamente e con piacere, che si intreccia con la vita locale, che porta cultura e la riceve.
Che si contamina di artigianato, di arte, di relazioni.
Quel turismo, quello vero, è in via d’estinzione.
Non perché manchi l’interesse, ma perché le condizioni per accoglierlo si stanno sgretolando.
Le città si svuotano, gli alloggi residenziali cedono il passo alla monocultura dell’affitto breve, gli spazi pubblici e le iniziative indipendenti vengono marginalizzati.
In questo quadro, eventi come il matrimonio di Bezos non sono il problema in sé, ma la spia più vistosa di un modello che esclude, che celebra la bellezza ma non la condivide.
Non è nostalgia, è politica.
Perché Venezia non ha bisogno di riflettori, ma di pensiero lungo.
Ha bisogno di un’economia diffusa, di scelte coerenti, di una visione che metta al centro non l’eccezionalità, ma la permanenza.
Non lo spettacolo, ma la vita quotidiana.
È in questa direzione che, come Laguna Libre, ci riconosciamo.
Non in opposizione al lusso, ma in favore della sostanza.
Ogni sera, ogni piatto, ogni nota dal vivo è per noi un piccolo atto di cura.
Crediamo che Venezia possa ancora essere una città che si offre senza svendersi,
che ospita senza perdere se stessa.
Una città che vive – non solo nelle immagini – di chi la abita e di chi la sceglie, davvero.